Ci
vorrà tempo per capire gli effetti concreti di una riforma
complessa, come quella “del lavoro”, di Monti e Fornero. Ci si
attendeva un duro contraccolpo, in licenziamenti, dovuto alla
parziale “sterilizzazione” dell'articolo 18. Forse è troppo
presto per dirlo, ma le conseguenze più negative sembrano invece
giungere dal versante “dell'entrata” nel lavoro stabilizzato.
Diranno gli esperti. Salta agli occhi, tuttavia, un grave limite di
tutta questa vicenda “riformatrice”. La crisi non dà tregua e le
necessità di forza lavoro si riducono in ogni settore e, più o
meno, ad ogni livello di qualifica. Questa legge è figlia invece di
una lunga serie di teorizzazioni, tutte basate sull'idea che il
mercato possedesse una naturale tendenza all'espansione, sempre
troppo frenata dai famosi “lacciuoli” normativi. Teorie
invecchiate inesorabilmente e oggi smentite dal baratro vertiginoso
nel quale viviamo. Fornero le ha invece seguite, sospinta dalla
necessità – dichiarata imperiosa – di dare segnali “ideologici”
ai mercati. Compensare poi diritti persi in tema di licenziamento con
rigidità, difficili nella crisi, nelle forme di assunzione è stato
un po' come sommare i fischi coi fiaschi. L'economia reale, come
sempre, si vendica, anche nel nostro territorio. Giungono notizie
circa il rapido disfarsi, da parte di molte imprese, di propri
dipendenti, prima di doverli assumere in via definitiva con le forme
più rigide adesso previste. Che fare, allora? Bisogna creare lavoro.
Senza questa priorità tutto il resto assomiglia all'agitarsi delle
creature dell'apprendista stregone. Alchimie ed impiastri sul come si
deve assumere e licenziare non possono sostituire la crescita. Se la
politica vuole riconquistare credibilità, sarà bene se ne accorga.
Alla svelta.
"Il contrario" rubrica di Davide Ferrari
L'Unità E-R
22
settembre 2012