Appunti sulla vicenda e i caratteri del PCI in Emilia-Romagna.
I. Nascita e affermazione di una eclettica totalità
L' Emilia-Romagna
che esce dalla guerra è una terra poverissima.
Il peculiare interscambio fra città e campagna ha evitato, anche durante il
conflitto e il lungo e drammatico passaggio del fronte, il
diffondersi di una carestia, di estesi fenomeni di vera e propria
fame, almeno nei territori centrali (da Imola a Parma).
Nondimeno la scarsità, nella vita quotidiana, è la protagonista assoluta.
A Bologna la grande parte delle famiglie fa un pasto solo al giorno dove la carne è
presente solo molto saltuariamente.
I consumi voluttuari sono pressoché inesistenti. Il cinema del doppio
programma è, in locali luridi, l'unico divertimento cui si riesce
con fatica a non rinunciare. In larghe zone delle campagne è
assicurato da operatori viaggianti. La pratica sportiva è quasi
azzerata.
Queste condizioni
rimarranno invariate, nella sostanza, fino alla prima metà degli
anni cinquanta.
Il PCI, già
vittorioso in larga parte della regione, ma non in tutta, deve
occuparsi, in primo luogo di condurre grandi lotte per minimi
miglioramenti nelle condizioni di vita urbane, e, sostenendo duri
scontri, nei patti agrari, ma è già così forte da iniziare
ad affrontare il tema del tempo libero, e realizzare prime occasioni
di ricreazione e svago. Dapprima saranno momenti estemporanei, poi
con enormi sforzi, insieme ad una rete sorprendente di associazioni,
a finalità ideali e o
professionali, e di gruppi per le donne e la famiglia, si formerà la
rete delle Case del popolo e si diffonderà la straordinaria
esperienza delle Feste dell'Unità.
Le iniziative di
diretta promozione sociale, come-per altri versi- la responsabilità
di numerosi Enti Locali, compresi i più importanti fra i Comuni-
diventeranno non soltanto un canale di collegamento con tutti gli
strati della società, di primaria importanza, ma via via la fucina
per la nascita e la crescita di gruppi dirigenti diffusi, di un
amplissimo volontariato, che apprenderà a misurarsi con leggi e
regolamenti, con infrastrutture ed artisti, con imprese e mestieri,
vedendo le proprie professionalità, da quelle operaie a quelle
muliebri, valorizzate in un ambiente che le rispetta e da loro
valore.
Sono oggi, finalmente, più compresi i caratteri e le motivazioni del
volontariato comunista, in Emilia così radicato da interessare, in
qualche misura, con almeno un componente, la grande maggioranza delle
famiglie. Oggi è maggiormente compreso come il volontariato abbia
prodotto una valorizzazione del lavoro e della professionalità di
decine di migliaia di persone, uomini e donne. Un lavoro, altrove
sottoposto a sfruttamento o quantomeno limitato da catene di comando
avulse dal merito, e invece fornito per libera scelta e senza la
gerarchia imposta dalla proprietà, nella realizzazione,
dall'edificazione alla gestione, delle sedi ed occasioni culturali
popolari.
Il quadro concettuale che si è andato formando nel PCI di Togliatti, non senza
lotte interne e drammatiche crisi, soprattutto dopo la rovinosa
sconfitta del Fronte Popolare, nel 1948, che sembra smentire per
sempre la validità della scelta delle larghe alleanze dei partiti
democratici, in Emilia-Romagna trova campo per una sua validazione
concreta e di massa.
“Aderire a tutte
le pieghe della società”, qui dove non si è marginali, si fa.
Qui non resta un
dovere politico ma si traduce in realtà: “Unire alla classe i ceti
medi”, cosiddetti produttivi, in particolare artigianali, spesso
derivati dalla fuoriuscita dai poli industriali di numerosi operai,
fra i migliori e più intraprendenti, per licenziamenti politici, ed
anche l'associare il piccolo commercio e l'ambulantato.
“Lottare per la
pace”, prima contro gli USA dell'atomica di Hiroshima, poi per la
coesistenza, diventa qui un tratto di enorme forza.
Nell'ispirazione ed
il richiamo insistente al primato della pace si coagula, confusamente
ma efficacemente, l'identità internazionalista e “antimperialista”
che vede l'URSS come indiscutibile punto di riferimento e metro di
verità, l'apertura alle masse cattoliche, la sacralizzazione, nel
ripudio della guerra, di tutto ciò che è pace e convivenza: il
lavoro, certamente, ma anche la famiglia, i rapporti umani, persino
il loisir e l'amore.
Linea politica e
morale, rinuncia alla rivoluzione e fedeltà ai suoi ideali,
concretismo e abnegazione in vista di un mondo “altro” da
affermare e conquistare, sono le robuste basi sulle quali si fonda
l'attivismo ordinato e libero, per più decenni, di vertici e base,
di amministratori e cittadini, di creativi e di organizzatori. Tutto
ciò che anche qui possiamo riassumere nel termine, ormai noto, di
“febbre del fare”, come ripreso dal film di Mellara e Rossi.
Senza questi
fondamenti non si sarebbe affermato un modello che, soprattutto nei
suoi rapporti con la cultura, dall'alta ricerca alle diffuse opinioni
appare orientato contemporaneamente, con efficace contraddizione, ad
un eclettismo, così insistito da ammorbidire l'ideologia, senza
negarne i valori, e a una tensione alla “totalità”, alla
comprensione nella sfera della politica di ogni espressione umana.
L'impasto fra idealità assolute e concreto servizio non ha solo
affascinato e convinto tanti alla militanza ma ha costituito anche
la legittimazione, non annullata da nessuna critica o contraddizione,
neanche le più serie, raggiunta dal PCI emiliano anche in settori
politico-culturali o sociali lontani o a lui opposti.
Il rispetto e la considerazione del PCI come qualcosa come di altro
rispetto ai mali insuperati del carattere e della storia italiana (
di cui mirabilmente scrisse Pasolini nei suoi ultimi interventi),
riposarono non solo sulla patente storica di partito erede, in
Italia, di una aspirazione alla costruzione rivoluzionaria di una
società diversa, ma, e in Emilia forse più ancora, sul modello
comportamentale fornito dai suoi quadri e soprattutto dalla sua
attiva e generosa base.
Al di là di rappresentazioni edulcorate della storia, talvolta
felicemente strumentali, adottate dal PCI medesimo per dare alimento
alle proprie aperture verso il mondo cattolico, per lunghi decenni la
Chiesa, anche in Emilia-Romagna, non cessò mai di sostenere
l'opposizione al potere del partito, e alle sue realizzazioni
amministrative e sociali. Don Camillo e Peppone di Guareschi,
simpaticamente nemici ma in realtà “fatti della stessa pasta”
bonaria, hanno vinto la battaglia dell'immaginario ma reggono solo in
parte alla prova della verifica degli accadimenti storici.
Dopo le tragedie delle varie fasi del dopoguerra, con gli episodi di
terrorismo ai danni di sacerdoti e dirigenti cattolici, da un lato,
e la durissima repressione del Governo a guida democristiana,
dall'altro, si è andato configurando un universo relazionale fra PCI
e mondo cattolico del tutto differente, ma pur sempre di
contrapposizione. L'episodio della candidatura a Sindaco di Bologna
di Giuseppe Dossetti, nel 1956, ne è esempio. Una sorta di sfida sul
terreno dell'innovazione istituzionale, e della partecipazione
sociale si mantenne tuttavia sempre all'ombra di un insuperabile
confine costituito dalla convinzione della non democraticità
sostanziale dei comunisti e della necessità storica di superarne
radicamento ed egemonia.
Il PCI, consapevole della centralità ineludibile della presenza
cattolica in Italia, fin dalla votazione sul Concordato all'Assemblea
costituente, adottò progressivamente, superando le venature
anticlericali degli anni frontisti, una tattica di dialogo e
coinvolgimento cosi vasta da trasformarsi in un carattere identitario
del partito.
La concorrenza delle forme di promozione culturale popolari si fermò
sempre al confine delle isole di maggior dimensione della presenza
cattolica. Gli asili infantili mai vennero combattuti, ed invece si
operò per integrarli nel sistema pubblico, in varia misura, così i
centri formativi per operai ed artigiani. La rete parrocchiale rimase
sempre, in Emilia, la più vasta nel mondo giovanile anche per
l'attenzione al suo operato da parte degli Enti locali guidati dai
comunisti.
Persino nelle manifestazioni popolari il confine dell'attività
ecclesiale non venne mai superato, come si può evincere
considerando, a puro titolo di esempio, il “Carnevale dei bambini”
di Bologna, voluto da Lercaro, sempre rimasto fino all'oggi, solo
nel suo genere, mai sfidato da manifestazioni simili di soggetti
opposti.
Se meno convinti furono in Emilia i contenuti moraleggianti del
tentativo comunista di avvicinare le masse cattoliche,
dall'esaltazione di Maria Goretti al familismo sessuofobico,
contrario al genius emiliano, più convincente fu la forza
dell'attivismo comunista nel proporre momenti di partecipazione
comune, dalla pace alla solidarietà verso il mondo del lavoro, nelle
sedi ed occasioni di cultura “di massa” promosse dal PCI.
Le Case del popolo ereditarono una tradizione già molto presente nel
socialismo riformista e popolare e la medesima abitudine a poter
disporre di istituzioni ricreative, consolidatasi nel ventennio
fascista. Fenomeno non solo emiliano, trovarono qui una dimensione ed un
radicamento popolare altrove non raggiunto.
E' noto l'episodio della visita di
Togliatti ad una Casa del popolo di Bologna, del suo chiedere
conto, bonariamente, di quello che gli pare frutto di una
mobilitazione d'occasione, il numero di uomini, donne e ragazzi al
lavoro nelle diverse attività associative, e del suo stupore nel
vedersi rispondere che una tale frequenza è normale e quotidiana.
Si comprende la funzione e l' importanza delle Case del popolo, se se
ne considera il carattere di luoghi della gioventù che per alcuni
decenni seppero mantenere.
Da tempo l'immagine del volontariato di sinistra è legata al mondo
degli anziani ma negli anni '50 , '60 e oltre, è soprattutto la
gioventù delle classi lavoratrici a trovare lì espressione e
protagonismo. Dopo una rilevantissima affluenza successiva al termine
della guerra, gli anni che seguirno la sconfitta frontista videro,
anche in Emilia, un drastico ridursi della leva delle adesioni,
proseguito fino alla svolta del'68. Nondimeno la FGCI si mantenne
organizzazione di massa e, nelle Case del popolo si realizzarono
esperienze comuni di giovani intellettuali e studenti con ragazzi e
ragazze impegnati nel lavoro fin dall'adolescenza.
La repressione degli anni di Scelba , nei quali si giunse a imputare
per accattonaggio i raccoglitori di
fondi per stampa, sedi ed iniziative, attraversò anche le Case del
popolo.
Si può ricordare la vicenda
dell'espropriazione della Casa del Popolo del Quartiere Mazzini a
Bologna, divenuta caserma dei Carabinieri, nonostante una
vera e propria battaglia dei giovani per mantenerne l'uso popolare.
Il carattere stabile, di laboratorio, delle “Case” le renderà
permeabili a fenomeni opposti. Da una parte l'urto del primo consumo
culturale di massa, della televisione e della concorrenza con il
divertimento commerciale, reso possibile dal maggiore livello di
occupazione raggiunto al termine degli anni '50 e poi dal boom
economico. Dall'altra parte con le ripetute ondate di
ripoliticizzazione e il confronto, sempre difficile, all'ombra di una
medesima bandiera, fra impulsi di rivoluzione, il richiamo
dell'ideologia e il riformismo di fatto prevalente nella quotidianità
delle attività.
Ad esempio si può citare la vicenda del teatro di Dario Fo e Franca
Rame, adottato, con la fatica di una difficile confronto, dalla rete
dell'ARCI, dopo la repressione del Governo e l'espulsione dalla TV di
Stato.
Una dialettica simile ha attraversato anche le Feste dell'Unità
dove, tuttavia, il carattere di apertura “indistinta” a ogni tipo
di fruizione e consumo culturale, leciti, è sempre risultato più
evidente.
La dialettica fra chi intendeva accentuare il messaggio politico e
chi affermava la natura di libera frequentazione, rivolta a tutti,
serena e piacevole, si è protratto per tutta l'esistenza del PCI.
Le Feste hanno visto, negli anni '50, il “Teatro di massa”, meno
celebrativo e più folklorico di quello presentato negli stadi di
Mosca o Pechino, ma in qualche modo riferibile ad una “cultura
totale”, accompagnarsi ai concorsi di bellezza, i massimi filosofi
e poeti “engagees” insieme alle prove di resistenza subacquea.
Una dialettica conciliativa, fra distinti e non opposti, che è
giunta fino al fronteggiarsi, esemplare, nella grande “città delle
feste” di Bologna, della Casadeipensieri, animata da scrittori di
ogni parte del mondo, con le kermesses di nuovi artisti proposti da
Andrea Mingardi, dagli ultimi anni del PCI, fino alle edizioni
odierne.
La mutazione del partito si è tuttavia riflessa anche nella
continuità delle Feste. I cartelli del Teatro di massa sono stati
riassorbiti nelle grandi sfilate politiche, poi via via ridotte, fino
a scomparire in programmi basati sul dibattito e sul confronto con le
altre forze politiche. Le insegne con le lunghe parole d'ordine sono
andate via via sparendo, sostituite da titolazioni uniche dell'intero
calendario, brevi e mutuate dal linguaggio pubblicitario
professionale.
Resta da ricordare che la stabilizzazione e la crescita di “Case”
e “Feste” si accompagnerà ad una progressiva chiusura o
riduzione di altre istanze in qualche modo rese meno urgenti dallo
sviluppo del welfare pubblico, in particolare quelle rivolte alle
donne ed ai ragazzi, dagli spacci alternativi ai concitti-scuola, ai
“pionieri”, non senza un relativo impoverimento della rete
associativa.
II. Il passaggio del '68
Lo sviluppo dell'economia italiana, l'esplosione dei mezzi di
comunicazione ed acculturazione di massa, la nascita della giovinezza
come categoria sociale, il differenziarsi del tempo, fra lavoro e
non, con la crescita del consumo, sono state, come da tempo ha
chiarito l'indagine della ricerca storica, elementi ineludibili anche
per il PCI, soprattutto in Emilia, dove la vastità dell'adesione e
della responsabilità di governo, favorivano il superamento delle
tentazioni di arroccamento e di rifiuto delle mutazioni.
Ne nacquero dibattiti memorabili, assorbimenti e crisi. Di volta in
volta il differenziarsi della società, la questione giovanile in
particolare, hanno sfidato il Partito, le sue concezioni più
radicate, lo svolgersi delle proprie attività sociali.
Se il contrasto fra il rock e soprattutto il beat, da un lato, e la
musica tradizionale, il ballo “liscio” intergenerazionale,
dall'altro, è stato risolto nella giustapposizione e
nell'affiancamento, assai più problematico è risultato affrontare
il gigantesco ritorno della politica come ansia di partecipazione, di
rivolgimento totale, portato dal finire degli anni '60.
Vi partecipavano, cercando referenza nel partito o in critica, anche
dirompente, a lui rivolta, culture e pezzi di società estranei al
“blocco sociale” emiliano fino allora realizzato. Cattolici,
figli della borghesia e del ceto medio, in numero tale da sconvolgere
la tavola fissa delle appartenenze, lasciavano in quegli anni i
riferimenti ereditati dalle proprie famiglie, e fino ad allora
iscritti nei propri destini. Gli studenti e poi i giovani laureati,
cresciuti numericamente in modo costante fin dal dopoguerra, con
l'espansione economica, diventano un nuovo grande soggetto culturale
e politico, in larghissima misura orientato a Sinistra, una Sinistra
cui non appartengono ed alla quale si presentano con codici e
linguaggi del tutto propri.
Se poteva supporsi che il PCI emiliano, più moderato nei
comportamenti, più inserito, con mille legami, nella medesima
società che è sottoposta alla contestazione studentesca, dovesse
diventare la controparte dell'ondata del '68-'69, così non fu.
Il concreto operare per l'inclusione, il diffuso protagonismo sociale
sempre promosso a fianco ed a sostegno della propria azione di
governo locale, la dialettica fra ideale di rivoluzione e pratica di
riforma, consentirono un nuovo “miracolo” del PCI emiliano.
Già affermatosi grazie alla rappresentanza ed alla partecipazione di
ceti del tutto altri rispetto all'operaio della grande industria, i
braccianti, il piccolo commercio, i lavoratori pubblici dei servizi e
dell'istruzione, il Pci regge l'urto della politicizzazione
studentesca e dei baby-boomers.
Proprio in Emilia-Romagna si danno esperienze di incontro e
mediazione fra i “nuovi rivoluzionari” ed il maggiore partito
della sinistra tradizionale.
Così a Bologna, con l'iniziativa, controversa ma lungimirante e
coraggiosa di una Sezione universitaria che legge Luxemburg, segue
Ingrao, viene più volte attaccata dalla direzione del partito, ma
riesce a costruire un dialogo, anzi è “dentro” il movimento,
contribuisce a modellarne culture e scelte.
Ancora più considerevole è l'innovazione amministrativa che in
quegli anni, tenta di abbandonare la quantità per scegliere la
qualità. In particolare con una politica urbanistica di salvaguardia
del bene naturale ed architettonico, divenuta modello ed
interlocutore per la cultura più avanzata, nel campo, di tutto il
mondo. Un altro settore attraversato dal '68 è la scuola, dove i
Comuni accelerano la costruzione di una rete di interventi perchè
sia garantita una “eguale partenza” ai bambini di tutte le classi
sociali e venga favorita la libertà delle donne nella famiglia. I
nidi, le scuole dell'Infanzia, il tempo pieno in tutta la scuola
dell'obbligo si uniscono ad una tradizionale valorizzazione della
cultura del lavoro portata avanti da scuole tecniche di buon
prestigio, gestite in più città dagli enti locali.
Convivono parole d'ordine sulla “irriformabilità della scuola e
dell'Università” che i più giovani dirigenti portano nei
dibattiti dei comitati federali del partito, appena addolcendo le
teorizzazioni originarie, da Althusser a Rudi Dutschke, e una
pratica avanzata di riforme, che si nutre di una partecipazione
battagliera, dal basso, di interi settori sociali e di più
generazioni, e, a sua volta è capace di indirizzarla di farla
crescere.
Nel passaggio fra anni '60 e '70 si crea anche un nuovo immaginario
ed un nuovo linguaggio comune proprio in quei giovani che per decenni
erano sembrati sfuggire alla Sinistra. Vi entrano prepotentemente le
idee del pacifismo contro la guerra del Vietnam, vero e proprio mito
di passaggio dalle proprie idee “antiche” ad un viversi nella
speranza di un domani totalmente differente. Esse permeano i testi
non solo dei cantautori impegnati, numerosi e di primo piano in
Emilia-Romagna, ma anche di alcune canzoni più note dei cantanti
“televisivi”. Così accanto a Guccini ed ai Nomadi, a Lucio Dalla
si trova Gianni Morandi, con “C'era un ragazzo...” , un inno
contro la guerra che proponeva intelligentemente l'identificazione
con i giovani d'oltreoceano costretti ad una una guerra non voluta e
non condivisa. Il Pci è sorpassato più volte ma rimane l'unico
interlocutore, la casa di quasi tutti gli artisti più celebri di
questa stagione.
Un riferimento morale, politico ed anche organizzativo, con le reti
dei circoli Arci e delle Feste dell'Unità, che diventano sempre più
curate e frequentate.
Nel partito si esprime anche un percorso di ricerca più
approfondito, di rivisitazione politica della tradizione popolare,
così', ad esempio con il “Canzoniere delle Lame” e mille altri
gruppi di diversa storia e dimensione.
Se l'Emilia non riesce a diventare un polo produttivo autonomo
rapportabile a Roma e a Milano sono molto numerosi, qui, gli artisti
di cinema e di teatro, e di elevatissima rilevanza. Anche nel cinema,
la “commedia all'italiana” diffonde, a livello della generale
opinione pubblica, letture garbatamente ma decisamente critiche
della storia e del presente, mentre il cinema di ricerca,
ripercorre la strada
delle culture alternative e dell'espressione profonda di
trasformazione.
Anche nel mondo cattolico sono anni di intensa mutazione degli
orientamenti culturali. Opera in Emilia, prepotentemente, il seme del
Concilio. A Bologna il vescovo Lercaro è protagonista di una svolta
clamorosa che, da protagonista della contrapposizione al PCI, lo
porta ad assumere le posizioni più coraggiose del dibattito
conciliare. Chiusa, non senza intervento censorio vaticano, la sua
esperienza, passano alle liste del PCI figure di rilievo come La
Valle e Codrignani. La contestazione più radicale, a sua volta,
opera nel profondo. Dalle “comunità di base”, ispirate da
figure “contro”, il cui esempio non si riesce a marginalizzare,
come Don Milani, fino alla scelta per il socialismo delle ACLI, passa
a Sinistra una parte rilevante dei quadri culturali migliori, di
formazione cattolica, dal giornalismo, all'università, alla scuola,
nelle fabbriche e nell'associazionismo.
Sono passaggi che il PCI favorisce, senza mai voler chiudere le porte
al dialogo con l'istituzione ecclesiale .
Sono percorsi che spesso lo sopravanzeranno, chiedendogli coerenze e
radicalità non attese ma che contribuiscono potentemente a fare del
PCI, collettore all'opposizione alla DC, un protagonista con il quale
deve “fare i conti” l'intero sistema politico e di governo.
Viene sconfitto il tentativo di risolvere una volta per tutte il
problema delle basi sociali della Repubblica con il centrosinistra,
escludendo la forza comunista.
In sostanza il Pci, attraversato dalla rivoluzione culturale degli
anni '60 e '70, pur non avendovi un ruolo di avanguardia e di
apripista, la accoglie, è pervaso e pervade il nuovo, e nel
passaggio di quegli anni accresce sostanzialmente la propria forza.
III. “Alta si levò la sconfitta”. E il mutamento.
Ma sotto la spiaggia dorata dei successi e delle realizzazioni lavora
una storia difficile che sta superando gli assetti del dopoguerra.
Se il PCI emiliano-romagnolo è ancora una volta il più capace di
raccogliere anche elettoralmente i frutti caduti dall'albero scosso
dalla contestazione, per tutta la prima metà degli anni '70, irrompe
alla fine di questo decennio una contraddizione non sanabile fra
governo e rivolta, quale mai il PCI aveva affrontato.
Le radici sono vastissime, figlie dell'epoca. Ad Est dopo le grandi
vittorie dell'estremo oriente il movimento comunista si rivela
incapace di trovare una via diversa dallo sviluppo quantitativo e
dall'irrigidimento militare.
La reazione americana è determinata e incalzante. Si scatena in
Italia una stagione terrorista tesa, nella sostanza, ad impedire
l'allargamento delle responsabilità di Governo a tutte le forze di
sinistra e che colpirà con la massima violenza Bologna e
l'Emilia-Romagna. Il PCI diventa nuovamente un punto di
contraddizione, subisce un attacco ed un conflitto che aveva, forse
solo con Berlinguer, in qualche modo immaginato e a cui tenta di
rispondere con il “compromesso storico”.
Una gestione tutta improntata alla “responsabilità nazionale”
non fa cogliere il rischio di spaccature deflagranti fra le diverse
anime della Sinistra.
Il '77 vede Bologna terreno di scontro, protagonista di una
“rivoluzione” rabbiosa ed isolata dalla politica, ma largamente
egemone nella realtà giovanile che la esprime.
Anche la centralità del lavoro, più icona politica che reale
assetto sociale, soprattutto qui, sembra scomparire sotto la messa in
luce di più e diversi lavori, i cosiddetti “non garantiti”
sembrano richiedere una radicalità che il partito non riconosce,
soprattutto mentre è impegnato a sostenere un Governo di intesa
nazionale.
E' perduta la “centralità operaia”, è smarrita la riconosciuta
superiorità morale del riferimento alla continuità storica del
partito.
I fatti del Marzo, vicenda in sé limitata sia pur gravissima,
segneranno una frattura mai ricomposta. Il PCI non potrà più
riconquistare una capacità egemonica dai tratti universali, quale
era riuscito ad assicurarsi in Emilia.
Si dividono le sorti,
definitivamente. Da una parte i soggetti politici e sociali
disponibili ad una decisa integrazione nel quadro esistente dei
poteri, che vogliono entrarvi per dare futuro alla democrazia,
accettano, anche nelle proprie modalità comunicative, la rinuncia
ad un orizzonte di generale trasformazione. Dall'altra parte separa
il proprio percorso una vasta componente di chi era andato maturando
l'attesa di una palingenesi, promessa fin dagli anni '60, nei
rapporti sociali come in quelli fra i generi, nella politica come
nell'orizzonte personale.
Dopo la fiamma delle barricate anche “contro” il PCI, sarà il
riflusso.
Bologna diviene, per anni, simbolo di una giovinezza creativa ma
decaduta nell'assenza di speranza, che si avvia gradatamente ad
abbandonare, prima la militanza poi l'interesse per la politica. I
romanzi di Tondelli, le tavole di Pazienza, la descriveranno meglio
di ogni ricerca, attirando emulazioni, divenendo “mito”.
Il PCI , dopo la barra perduta nei tragici giorni del Marzo, sarà
capace di affrontare meglio la rivolta, garantendo spazi ed ascolto.
Sarà “La società”, il giornale della Federazione del PCI di
Bologna, a stampare gli atti, quasi le memorie, culturali della
stagione settantasettina.
Con innovative politiche di welfare, viene riassorbito molto del
protagonismo sociale e vengono inseriti nel quadro delle professioni
pubbliche numerosi fra i quadri politici del '77.
Ma il momento dell'espansione lenta e progrediente è passato per
sempre.
Non sono più sufficienti il carattere eclettico del PCI emiliano, le
giustapposizioni di culture, l'allargarsi della nomenclatura delle
contraddizioni assunte nella propria estesa capacità di
rappresentanza.
Per la prima volta il PCI, pur passando dalla condanna al dialogo,
non è in grado di elaborare una propria strategia egemonica. Non
“comunica”, come tante volte si dirà.. La cultura giovanile
prima si radicalizza poi rifluisce, sempre lontanissima.
Il tentativo dell'ultimo Berlinguer di pensare la crisi e di opporsi
alla caduta, con le aperture ai movimenti ed al femminismo, alla
difesa operaia dalla ristrutturazione, al pacifismo, viene seguito
dal partito emiliano.
Ma sembra più forte la tentazione di una scorciatoia esplicitamente
riformista. Pare più capace di fare i conti fino in fondo con quanto
sta accadendo. Il riformismo trova le parole per dire il suo nome ma
rinchiuso in un'ottica di riduzione dell'orizzonte del cambiamento,
non più ispirato ad una pratica di progresso -per tappe, certamente-
ma aperto e curioso di ogni trasformazione.
Il PSI di Bettino Craxi sembra la risposta adatta a seguire la grande
chiusura in corso nella società italiana ed insieme a garantire a
nuovi ceti e generazioni il canale di accesso al potere. Nasce il
”migliorismo” e da battaglia, qui più che altrove, alla terza
via, forse tardiva, di Berlinguer.
Si apre una lunga stagione di cambiamenti prima impensati. Comincia
ad intravedersi che non può essere un partito “comunista”,
comunque ridefinito dalla sua storia e dalla sua intelligenza, ad
essere il soggetto motore della conquista del governo del paese,
mentre tutta un'epoca si consuma, .
Si richiude l'orizzonte politico di tutto il PCI ed anche di quello
locale. Non saranno i miglioristi emiliani i protagonisti dell'ultima
decisiva metamorfosi, troppo limitati da una analisi tutta politica
del presente.
E le varie anime più a sinistra, pur godendo ancora di quadri
dirigenti di valore e di vastissimo radicamento, non riusciranno a
proporre una alternativa capace di rappresentare il concretismo
dell'amministrazione e le urgenze di un presente difficile.
Proprio a Bologna, dopo la caduta del muro di Berlino, soltanto 12
anni dopo il '77, e ad appena 5 dalla scomparsa di Berlinguer,
Achille Occhetto annuncia la fine del PCI.
Il termine di una storia non può non essere una sconfitta, che “alta
si levò” come afferma un celebre verso, pure non può negarsi
che, in questo caso caso, si sia voluto consapevolmente seguire il
mutamento, senza perdere il filo della politica.
E' storia di oggi. Una storia dove l'eredità del PCI dell'Emilia
Romagna ha comunque agito, è risultata elettoralmente decisiva,
strategica, in tentativi significativi e vincenti, in più fasi, come
l'Ulivo di Romano Prodi, ma dove non pare avere partecipato più,
sia per insuperabili limiti sia, all'opposto, per colpevoli
rimozioni, a produrre nuove visioni e indirizzi peculiari
sufficientemente delineati per imporsi come modello all'intera
Italia.
Davide Ferrari
Ma sotto la spiaggia dorata dei successi e delle realizzazioni lavora
una storia difficile che sta superando gli assetti del dopoguerra.
Se il PCI emiliano-romagnolo è ancora una volta il più capace di
raccogliere anche elettoralmente i frutti caduti dall'albero scosso
dalla contestazione, per tutta la prima metà degli anni '70, irrompe
alla fine di questo decennio una contraddizione non sanabile fra
governo e rivolta, quale mai il PCI aveva affrontato.
Le radici sono vastissime, figlie dell'epoca. Ad Est dopo le grandi
vittorie dell'estremo oriente il movimento comunista si rivela
incapace di trovare una via diversa dallo sviluppo quantitativo e
dall'irrigidimento militare.
La reazione americana è determinata e incalzante. Si scatena in
Italia una stagione terrorista tesa, nella sostanza, ad impedire
l'allargamento delle responsabilità di Governo a tutte le forze di
sinistra e che colpirà con la massima violenza Bologna e
l'Emilia-Romagna. Il PCI diventa nuovamente un punto di
contraddizione, subisce un attacco ed un conflitto che aveva, forse
solo con Berlinguer, in qualche modo immaginato e a cui tenta di
rispondere con il “compromesso storico”.
Una gestione tutta improntata alla “responsabilità nazionale”
non fa cogliere il rischio di spaccature deflagranti fra le diverse
anime della Sinistra.
Il '77 vede Bologna terreno di scontro, protagonista di una
“rivoluzione” rabbiosa ed isolata dalla politica, ma largamente
egemone nella realtà giovanile che la esprime.
Anche la centralità del lavoro, più icona politica che reale
assetto sociale, soprattutto qui, sembra scomparire sotto la messa in
luce di più e diversi lavori, i cosiddetti “non garantiti”
sembrano richiedere una radicalità che il partito non riconosce,
soprattutto mentre è impegnato a sostenere un Governo di intesa
nazionale.
E' perduta la “centralità operaia”, è smarrita la riconosciuta
superiorità morale del riferimento alla continuità storica del
partito.
I fatti del Marzo, vicenda in sé limitata sia pur gravissima,
segneranno una frattura mai ricomposta. Il PCI non potrà più
riconquistare una capacità egemonica dai tratti universali, quale
era riuscito ad assicurarsi in Emilia.
Si dividono le sorti,
definitivamente. Da una parte i soggetti politici e sociali
disponibili ad una decisa integrazione nel quadro esistente dei
poteri, che vogliono entrarvi per dare futuro alla democrazia,
accettano, anche nelle proprie modalità comunicative, la rinuncia
ad un orizzonte di generale trasformazione. Dall'altra parte separa
il proprio percorso una vasta componente di chi era andato maturando
l'attesa di una palingenesi, promessa fin dagli anni '60, nei
rapporti sociali come in quelli fra i generi, nella politica come
nell'orizzonte personale.
Dopo la fiamma delle barricate anche “contro” il PCI, sarà il
riflusso.
Bologna diviene, per anni, simbolo di una giovinezza creativa ma
decaduta nell'assenza di speranza, che si avvia gradatamente ad
abbandonare, prima la militanza poi l'interesse per la politica. I
romanzi di Tondelli, le tavole di Pazienza, la descriveranno meglio
di ogni ricerca, attirando emulazioni, divenendo “mito”.
Il PCI , dopo la barra perduta nei tragici giorni del Marzo, sarà
capace di affrontare meglio la rivolta, garantendo spazi ed ascolto.
Sarà “La società”, il giornale della Federazione del PCI di
Bologna, a stampare gli atti, quasi le memorie, culturali della
stagione settantasettina.
Con innovative politiche di welfare, viene riassorbito molto del
protagonismo sociale e vengono inseriti nel quadro delle professioni
pubbliche numerosi fra i quadri politici del '77.
Ma il momento dell'espansione lenta e progrediente è passato per
sempre.
Non sono più sufficienti il carattere eclettico del PCI emiliano, le
giustapposizioni di culture, l'allargarsi della nomenclatura delle
contraddizioni assunte nella propria estesa capacità di
rappresentanza.
Per la prima volta il PCI, pur passando dalla condanna al dialogo,
non è in grado di elaborare una propria strategia egemonica. Non
“comunica”, come tante volte si dirà.. La cultura giovanile
prima si radicalizza poi rifluisce, sempre lontanissima.
Il tentativo dell'ultimo Berlinguer di pensare la crisi e di opporsi
alla caduta, con le aperture ai movimenti ed al femminismo, alla
difesa operaia dalla ristrutturazione, al pacifismo, viene seguito
dal partito emiliano.
Ma sembra più forte la tentazione di una scorciatoia esplicitamente
riformista. Pare più capace di fare i conti fino in fondo con quanto
sta accadendo. Il riformismo trova le parole per dire il suo nome ma
rinchiuso in un'ottica di riduzione dell'orizzonte del cambiamento,
non più ispirato ad una pratica di progresso -per tappe, certamente-
ma aperto e curioso di ogni trasformazione.
Il PSI di Bettino Craxi sembra la risposta adatta a seguire la grande
chiusura in corso nella società italiana ed insieme a garantire a
nuovi ceti e generazioni il canale di accesso al potere. Nasce il
”migliorismo” e da battaglia, qui più che altrove, alla terza
via, forse tardiva, di Berlinguer.
Si apre una lunga stagione di cambiamenti prima impensati. Comincia
ad intravedersi che non può essere un partito “comunista”,
comunque ridefinito dalla sua storia e dalla sua intelligenza, ad
essere il soggetto motore della conquista del governo del paese,
mentre tutta un'epoca si consuma, .
Si richiude l'orizzonte politico di tutto il PCI ed anche di quello
locale. Non saranno i miglioristi emiliani i protagonisti dell'ultima
decisiva metamorfosi, troppo limitati da una analisi tutta politica
del presente.
E le varie anime più a sinistra, pur godendo ancora di quadri
dirigenti di valore e di vastissimo radicamento, non riusciranno a
proporre una alternativa capace di rappresentare il concretismo
dell'amministrazione e le urgenze di un presente difficile.
Proprio a Bologna, dopo la caduta del muro di Berlino, soltanto 12
anni dopo il '77, e ad appena 5 dalla scomparsa di Berlinguer,
Achille Occhetto annuncia la fine del PCI.
Il termine di una storia non può non essere una sconfitta, che “alta
si levò” come afferma un celebre verso, pure non può negarsi
che, in questo caso caso, si sia voluto consapevolmente seguire il
mutamento, senza perdere il filo della politica.
E' storia di oggi. Una storia dove l'eredità del PCI dell'Emilia
Romagna ha comunque agito, è risultata elettoralmente decisiva,
strategica, in tentativi significativi e vincenti, in più fasi, come
l'Ulivo di Romano Prodi, ma dove non pare avere partecipato più,
sia per insuperabili limiti sia, all'opposto, per colpevoli
rimozioni, a produrre nuove visioni e indirizzi peculiari
sufficientemente delineati per imporsi come modello all'intera
Italia.
Davide Ferrari
Scritto pubblicato nel volume:
"Emilia rossa. Immagini, voci, memorie dalla storia del PCI in Emilia-Romagna 1945-1991"
a cura di Lorenzo Capitani, Vittoria Maselli ed.