sabato 22 settembre 2012

Se manca il lavoro, la riforma fa male.


Ci vorrà tempo per capire gli effetti concreti di una riforma complessa, come quella “del lavoro”, di Monti e Fornero. Ci si attendeva un duro contraccolpo, in licenziamenti, dovuto alla parziale “sterilizzazione” dell'articolo 18. Forse è troppo presto per dirlo, ma le conseguenze più negative sembrano invece giungere dal versante “dell'entrata” nel lavoro stabilizzato. Diranno gli esperti. Salta agli occhi, tuttavia, un grave limite di tutta questa vicenda “riformatrice”. La crisi non dà tregua e le necessità di forza lavoro si riducono in ogni settore e, più o meno, ad ogni livello di qualifica. Questa legge è figlia invece di una lunga serie di teorizzazioni, tutte basate sull'idea che il mercato possedesse una naturale tendenza all'espansione, sempre troppo frenata dai famosi “lacciuoli” normativi. Teorie invecchiate inesorabilmente e oggi smentite dal baratro vertiginoso nel quale viviamo. Fornero le ha invece seguite, sospinta dalla necessità – dichiarata imperiosa – di dare segnali “ideologici” ai mercati. Compensare poi diritti persi in tema di licenziamento con rigidità, difficili nella crisi, nelle forme di assunzione è stato un po' come sommare i fischi coi fiaschi. L'economia reale, come sempre, si vendica, anche nel nostro territorio. Giungono notizie circa il rapido disfarsi, da parte di molte imprese, di propri dipendenti, prima di doverli assumere in via definitiva con le forme più rigide adesso previste. Che fare, allora? Bisogna creare lavoro. Senza questa priorità tutto il resto assomiglia all'agitarsi delle creature dell'apprendista stregone. Alchimie ed impiastri sul come si deve assumere e licenziare non possono sostituire la crescita. Se la politica vuole riconquistare credibilità, sarà bene se ne accorga. Alla svelta.

"Il contrario" rubrica di Davide Ferrari
L'Unità E-R
22 settembre 2012