martedì 19 giugno 2012

Armando Sarti, ricordi permanenti.

 
Nel 1985 mi iscrissi, giovanissimo, alla Direzione del Pci di Bologna.
A differenza di Enrico Berlinguer, per il quale Giancarlo Pajetta coniò la celebre battuta, non sono stati molto lunghi i miei passi successivi.
Venivo dal PdUP, il piccolissimo, ma decoroso, partito di Lucio Magri, Luciana Castellina e Luca Cafiero, di cui ero il Segretario locale. Da qui la nomina.
Era l’ultimo PCI, ma ancora non lo sapevamo. Quattro anni dopo Achille Occhetto sarebbe andato alla Bolognina, iniziando un’altra storia. Era ancora il PCI, la più grande federazione del PCI.
Dominava la personalità, a me particolarmente cara, di Renzo Imbeni, Sindaco e “conduttore politico” del partito.
La prima discussione importante alla quale partecipai non fu delle più tranquille. I “miglioristi” proponevano un uomo di grande valore, Vincenzo “Nino” Galletti fra le candidature per il Comune. Altre anime, quella più burocratica e quella più di sinistra, alleate, per una volta, lo respingevano.
Avrei dovuto dal loro man forte, era cosa “naturale”. Non lo feci. Mi indussero al dubbio le parole misurate di Galletti ed i ragionamenti, più “inquieti”, forse, ma vivi, penetranti, di Armando Sarti. Inaugurai così un lungo corso personale di anima fedelissima ma in qualche modo peculiare, non adusa a facili, immediate scelte. I caratteri peggiori per fare carriera.
Non ho avuto occasione di raccontarglielo ma devo molto di questa piccolissima peculiarità ad Armando Sarti.
Nel parlamento del Pci bolognese, il Comitato Federale, si parlava con una certa emozione. La platea era ancora fitta di personaggi di prestigio e di storia. Sarti sedeva, al solito, nelle prime file, ma era spesso in piedi, non si tratteneva dal “vagabondare”, ad intenzione, fra le compagne ed i compagni, per discutere, informarsi, convincere. Era parlamentare, attivissimo, e presidente della CISPEL, la confederazione delle municipalizzate.
Lo ascoltai, più volte, richiamare la necessità di comprendere “la verità interna” degli altri da noi. Proponeva, così, con fondamenti profondi, una linea delle alleanze, più preoccupata di quanto altri, più di sinistra, non fossero, dei rapporti con il PSI e con l’interezza del movimento sindacale.
Non deve trarre in inganno l’etichetta di “migliorista”. Stava nascendo allora, è vero, una corrente di pensiero troppo politicista, lo penso anche oggi, che contribuì ad indebolire i legami del maggior partito di sinistra con il crogiuolo delle contraddizioni sociali, con i temi stessi del programma.
Ma Sarti, come Galletti ed il più eretico Guido Fanti non condivideva certo questi limiti.
Era, la sua, una ricca personalità, espressione di quella “febbre del fare”, così tipica dei comunisti emiliani di cui si è recentemente parlato, grazie al bel film-documento di Michele Mellara ed Alessandro Rossi
La società, con i suoi infiniti risvolti, gli interessava, moltissimo. Alle spalle aveva un percorso di governo, al Comune, fra i maggiori della nostra storia. Aveva diretto, da politico, le ampie, ariose, innovative scelte di una urbanistica radicale e moderna. Forse proprio in quell’esperienza aveva intuito il legame fra la passione per l’utopia e il gusto di provare la realizzazione, il concreto.
Alla CISPEL stava dando un indirizzo di maggior presenza, sull’ambiente, la cogenerazione energia-calore, ricordo, e le prime forme di bilancio sociale e partecipato, come oggi si nomina.
I più giovani fra i miglioristi mi allontanavano, per quella che a me pareva una spregiudicatezza eccessiva, una rivendicazione dell‘Io, mentre gli “anziani” come Sarti, mi apparivano poliedrici e ricchi, mi aprivano ad esperienze che, per la mia formazione innanzitutto ideologica e studentesca, non conoscevo.
Capitò così che, giovane ancora, delegato al Congresso nazionale del PCI a Firenze, il primo dopo Berlinguer, in un’ansa del dibattito della Commissione elettorale, intervenni nella riunione della delegazione bolognese per ricordare anche quello di Sarti fra i nomi da inserire, o confermare, nei vertici . Fui avvicinato da preoccupati ed incuriositi compagni che chiesero, a me, isolato ed ignaro, il significato remoto di una indicazione così sorprendente. Addussi, ulteriore grave “errore“, motivazioni di merito, “Sarti uomo di valore, prezioso, rappresentante della nostra realtà più avanzata”, lasciando ancor più sorpresi i miei interlocutori. Capirono allora, probabilmente, di discutere non con uno stratega ma con un consapevole ingenuo.
Altri ancora, i ricordi. Le riunioni del Comitato contro le crisi aziendali dove i parlamentari Armando Sarti e Mauro Olivi, sempre presenti, curavano l’evolversi, de visu, di situazioni difficili, mettevano la loro credibilità al servizio di possibili mediazioni, di possibili interventi di nuovo investimento.
La funzione di Presidente dell’Editoriale dell’Unità gli venne in quegli anni. E, mentre tutto del nostro “mondo“, ancora vastissimo, cominciava a cambiare e a scricchiolare, furono anni di risanamento e di impulso. Anche qui il “doppio binario” di Sarti, pare di poter scrivere. L’attenzione alle ragioni di impresa, fosse solo per impiegare al meglio risorse che costavano fatica al nostro popolo, e lo sviluppo di iniziative di promozione di dibattito, di partecipazione, che accompagnassero il rinnovamento editoriale. Fu negli anni di Sarti che l’Unità tento la via di una nuova forma di volontariato sostenitore, con la nascita della Cooperativa dei soci, affidata ad uno scrittore di altissimo ingegno e di straordinaria generosità, Paolo Volponi.
E dall’incontro, in quella sede, di alcuni giovani intellettuali bolognesi con Paolo Volponi è nata la “Casa dei pensieri” che ancora vive.
Volponi, come noi suoi giovani sodali, era di tendenza radicale, amico di Pasolini, contestatore dall’interno, di ogni produttivismo, delle “mosche del capitale”. Evidentemente il migliorista Sarti non temeva il confronto e preferiva l’aria aperta della promozione culturale al chiuso di una corrente, al grigiore di un apparato.
Negli anni che si susseguivano, ricordo, la sua figura, alta, elegante, si accompagnò a gesti nuovi, nel parlare, nel muovere. Così quella che credo fosse una leggera sordità lo ispirò all’ uso di accartocciare la mano all’orecchio, per meglio sentire gli interventi altrui.
Non era un’immagine senile. Al contrario gli diede un vezzo di simpatia ulteriore, almeno ai miei occhi.
L’89, il ‘91, la nascita del PDS, scissioni, mutazioni. E poi il “terribile” ‘99, l’anno della prima sconfitta a Bologna. Sarti, il partigiano, il parlamentare, l’uomo del popolo che ha saputo “usare” gli intellettuali per salvare la collina, svecchiare le aziende ed i servizi, ridare forza ad un grande giornale, è ancora una delle “icone” di Bologna politica.
Un personaggio, con la sua compagna, l’architetto Felicia Bottino, uno dei migliori assessori alla cultura che la Regione Emilia-Romagna abbia avuto. Capogruppo dell’opposizione, tra le mie prime intenzioni, anche per acquisire forza e autorevolezza, non solo idee, è quella di mettermi a rapporto con i grandi “vecchi” del partito. Quelli che, sconfitta o non sconfitta, conservavano un patrimonio ineliminabile. Fra questi Sarti. Ma la malattia è già presente ed il tempo è quello del commiato. L’occasione, dolorosa, è quella di correre con Salvatore Caronna al capezzale della sua morte, chiamati dalla sua compagna.
L’eredità dei ricordi di uomini come Sarti non appartiene solo alla loro generazione, ai loro amici più vicini. Lo testimonia la permanenza anche in chi non fu di questi, come io non fui, delle sue parole, della sua immagine, dell’impronta degli avvenimenti nei quali ci si avvalse della sua maestria.
Davide Ferrari